In Italia l’autorizzazione di un impianto di energia pulita richiede in media sette anni. Oltre alla lenta burocrazia, spesso è l’opposizione delle comunità locali a bloccare i progetti. Di questo passo gli obiettivi del Green Deal saranno raggiunti nel 2090, anziché nel 2030.
Senza troppa fretta e non nel mio cortile. Burocrazia e opposizione delle comunità locali stanno frenando lo sviluppo delle energie rinnovabili in Italia, sviluppi che invece dovrebbe accelerare per ridurre del 55% le emissioni di CO2 entro il 2030.
Per raggiungere il 72% di rinnovabili nel mix elettrico, in un decennio dovranno essere installati almeno 70 gigawatt (GW) di nuovi impianti per la produzione di energia pulita. Oggi si viaggia al ritmo di 0,9 GW all’anno, 7 volte meno del necessario, con un ulteriore rallentamento di capacità installata riscontrato negli ultimi mesi.
Le ultime aste per le rinnovabili sono andate semideserte. Il fondo si è toccato lo scorso giugno, quando è stato assegnato solo il 5% della capacità disponibile: il GSE (Gestore dei Servizi Energetici) aveva messo all’asta 1.582 MW di nuova capacità, ma ha ricevuto offerte dalle imprese energetiche per soli 98,9 MW, dando il via libera a progetti per appena 73,7 MW. Calcolatrice alla mano, meno del 5% di quanto messo sul piatto.
Che cosa determina questo scarso successo delle aste? Due concause: le lungaggini degli iter burocratici e l’incertezza giuridica.
In Italia il processo autorizzativo di un impianto rinnovabile ha una durata media di 7 anni, di cui quasi 6 anni oltre i limiti di legge. I suoi costi sono i più alti in Europa.
Il ritardo è dovuto ad alcuni fattori, tra cui per esempio la moltiplicazione dei centri decisionali fra enti centrali e locali, regioni e comuni, che rende il procedimento farraginoso e poco prevedibile nei tempi e negli esiti.
Ottenuto il via libera, poi, i progetti possono ancora essere bloccati dalle soprintendenze ai beni culturali che agiscono in base a linee guida vecchie di oltre 10 anni, con esiti talvolta paradossali. In Sardegna, per esempio, è stata bloccata l’installazione di nuove pale eoliche più potenti che ne avrebbe ridotto il numero complessivo e quindi l’impatto paesaggistico.
La sindrome Nimby (dall’inglese not in my back yard, non nel mio cortile) colpisce infine un gran numero di comunità, pregiudizialmente contrarie alla realizzazione di qualsiasi impianto nel proprio territorio, benché ambientalmente ed economicamente vantaggioso. Stando alle più recenti rilevazioni del Nimby Forum, in Italia sono 317 le infrastrutture e gli impianti oggetto di contestazione.
Il risultato è che il 46% dei progetti proposti non viene alla fine realizzato. Di questo passo gli obiettivi di decarbonizzazione verranno centrati nel 2090, quando ormai la battaglia contro il cambiamento climatico sarà persa.
Che fare? I termini autorizzativi devono essere resi certi e perentori, prevedendo poteri sostitutivi del governo in caso di inerzia delle amministrazioni locali.
I 70 GW di rinnovabili da installare entro il 2030 dovrebbero essere ripartiti sin dal principio fra le varie regioni, tenendo conto delle caratteristiche territoriali, e gli impianti fotovoltaici su terreni agricoli abbandonati o degradati andrebbero inclusi nelle aste per gli incentivi.
Il potere di veto delle soprintendenze andrebbe meglio circoscritto, inserendolo nella nuova cornice della transizione verde. La lotta alle emissioni è d’altronde una forma di tutela del paesaggio – forse oggi la più importante.
Più in generale, va aggiornata la cultura delle rinnovabili che non sono un onere da condividere ma un’opportunità da cogliere. L’Italia è il secondo Paese europeo per costi causati dal cambiamento climatico e il raggiungimento dei target al 2030 del Green Deal europeo genererà nel solo settore elettrico investimenti per 100 miliardi e creerà 90.000 nuovi posti di lavoro. Una opportunità quindi da cogliere con entusiasmo.